FESTE E COSTUMI SARDI
San Mauro
Addossata al principiare del colle, che chiude la pianura sottostante, s’erge la chiesa campestre di San Mauro, nera e screpolata, quasi protetta dal campani luccio di granito.
Da lungi di direbbe un castello medievale. Il muro di cinta, solcato da grosse fenditure, coi suoi due ampi portoni massicci, e quella sessantine di casette nane accoccolate intorno alla chiesa, coi loro tetti neri ove qua e là spuntano rigogliosi ciuffi d’erbe, contribuiscono a completare l’illusione dando a quei caseggiati l’aspetto di villaggio medievale.
Fuori del ricinto chiuso dal muro, negli ultimi giorni di maggio di ogni anno, tempo appunto in cui ricorre la festa, sorge, come per incanto, un nuovo paese! centinaia di carri, coperti, in forma di cupola, da lenzuola, a guisa di barche a vele spiegate sciamano in quel mare di verdura. Quante tende, quante baracche di frasche, quante capanne di stuoie intessute di canne!
Nella pianura un formicolio irrequieto, uno spandersi, un ammassarsi compatto di folla vociante. Nugoli di rosso, di bianco, di verde, d’azzurro; uno scintillare di colori svariati di quelle centinaia di costumi, tutti diversi, tutti variopinti, tutti più ricchi l’uno dell’altro. Migliaia di cavalli, montati da arditi cavalieri, corrono a precipizio, in tutte le direzioni, scansandosi sempre l’uno con l’altro, saltando muri, varcando fossi, superando siepi. Armenti interi di bovi, rincorrentisi e cozzanti con le corna terribili, squilli di campane, fucilate, nitriti di cavalli, muggiti di bovi, canti allegri voci di rivenditori, si confondono nell’aria, formando un assieme che ha qualche cosa del brontolio del mare irato o del rombo lontano del tuono. Dal cielo piovono i raggi caldi del sole, illuminando questa scena che si presenta a chiunque abbia desiderio di vedere la principale fiera campestre dell’isola, dall’alto di una collinetta che guarda la chiesa da un chilometro di distanza.
– E’ uno spettacolo stupendo – disse un giovane professore venuto con me per vedere la festa e non mi pento di aver fatto quelle dieci ore di strada a cavallo, da Nuoro fin qua!
Un quarto d’ora dopo, messi in luogo sicuro i nostri cavalli, ci inoltriamo tra la folla.
Il primo nostro pensiero fu di andare a vedere la chiesa, fare la conoscenza personale dì quel gran Santo; ma ci volle del Bello e del buono prima di potervi penetrare! I fedeli ed anche gli infedeli che non credevano alla potenza dei miracoli di San Mauro, ma che avevano voglia di vedere e di osservare, si riversavano dentro allo spazioso tempio, a torrenti, pigiandosi, urtandosi, stringendosi, senza lamenti, senza brontolii.
Tutti volevano vederlo, quel gran santo che faceva camminare i paralitici, che rendeva la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, la favella ai muti. Ed egli, il buon frate, guardava dall’alto della sua nicchia, tutto quel popolo prostrato dinanzi a lui, col suo sguardo eternarnente sorridente, pieno di beatitudine soave.
I credenti più fervidi si prostravano ai piedi dell’ altare, baciandone gli scalini e deponendo colà centinaia di doni votivi. Treccie lunghissime di capelli neri, più fini della seta; mani, piedi, teste, poppe di cera bianchissima legati con ricchi nastri di eta, cuori d’argento e quadretti malamente dipinti, rappresentanti quasi sempre un ammalato guarito miracolosamente dal santo.
I doni votivi si ammucchiavano sull’altare; sugli scalini, nelle cappelle vicine, dando alla chiesa l’apparenza di una cereria in liquidazione.
L’uscir fuori dal tempio non fu meno disagevole dell’entrare, perché l’onda umana continuava sempre incessantemente a versarsi dentro a quelle quattro mura.
Era un’onda di colori vivaci, di broccati sfavillanti, di lini bianchissimi, di veli vaporosi, un corruscare di sete, un luccichio di rasi, tutti tempestati d’oro e di gioielli, tutti barbagli di pietre e di metalli preziosi. Era una colonna che s’avanzava continuamente, interminabile, di fanciulle di bellezze sorprendenti, di spose procaci, di vedove piene di tentazioni; e miste a loro vecchie dai profili adunchi, scarne, rugose, di un’orribile bruttezza, resa vieppiù ributtante dal confronto delle bellezze giovanili. Uomini fieri del Capo di sopra, con lunghe barbe spioventi sui corpetti (zippones) rossi, o turchini, o color mattone; facce tonde, lisce, accuratamente rasate, degli indigeni del Campidano, dall’incedere rispettoso e quasi servile; ragazzi laceri, con certe teste arruffate, ove il pettine non era mai passato; vecchi curvi dagli anni, tutti urtantisi, tutti lavorando di gomiti per arrivare a baciare l’altare del santo.
Eccoci finalmente fuori: oh come fa bene quest’aria libera! Ci pare di averci tolto un peso dallo stomaco! La scena, fuori, è diversa, totalmente cambiata. Intorno alla chiesa, fabbricate contro il muro di cinta, erano le tettoie per i negozianti di telerie, seterie e chincaglierie accorsi alla festa. Là c’era una gara tra di loro per esporre con miglior gusto i più bei broccati, le sete più fini, i fazzoletti più eleganti, gli scarlatti più buoni. Quelle rustiche tettoie, in quei giorni si trasformavano, come per incanto, in veri salotti orientali, ricchi di drappi serici e di damaschi preziosi. Le fanciulle accorrevano a sciami, belle, vezzose, gaie, piene di incanti e di seduzioni, ricche di salute e di sorrisi. Rovesciavano le stoffe, disputando sul prezzo, facevan finta di non combinare, andavan via e poi tornavan più numerose, più chiassose di prima, e compravano, minacciando i negozianti estatici coi ditini color di rosa. In un angolo, sotto la tettoia, gli immancabili Aritzesi rivenditori di limonata gelata (carapinna) sempre pronti, sempre servizievoli, studiandosi di contentare gli avventori, arsi dal sole, dalla polvere e dalla vernaccia.
Più in là i chincaglieri girovaghi napoletani, colla tombola, con la ruota della fortuna, con la pesca miracolosa, pescando, con mille astuzie, i popolani più ingenui. Dopo i napoletani due lunghe righe di donne di Tonara, rivenditrici di turrones (mandorlato fatto col miele) – povere vittime, in tutte le feste della Sardegna, degli scherzi osceni degli ubriachi, condannate a stare giorno e notte sempre sul chi vive, accanto al loro tavolino sciancato, senza prendere un’ora di sonno, un minuto di riposo, pallide, sparute, bruciacchiate dal sole.
Più in fondo un ampio tendone di tela bianca, con un gran cartellone da un lato ove stava scritto: «Illusioni ottiche panoramiche» dall’altro lato un gran telone, ove un pittore incompreso aveva dipinto a grandi pennellate la disfatta di Dogali, ed il Colonnello De Cristoforis che fa presentare le armi ai caduti.
Alla porta della tenda un’infelice creatura umana, avvolta in un cencio di gonnella, batteva i denti per il ribrezzo della febbre, e dava dei colpi stanchi e lenti sulla pelle bucata di una vecchia grancassa, gridando con voce appena intelligibile:
«Un soldo, un soldo, signori, il combattimento d’Africa, Venezia in mezzo al mare,
Costantinopoli, la fucilazione di Misdea, un soldo, avanti, avanti».
E nell’interno, un omone con la faccia color del pomidoro – in mezzo alla quale giganteggiava uno schifoso naso bitorzoluto – con le braccia incrociate sul petto attendeva, dondolando per l’ubriachezza, gli avventori avidi di illusioni ottiche, di tanto in tanto lanciava una rauca minaccia all’infelice donna, per eccitarla a gridare e a battere più forte.
Fuori, dinnanzi alla tenda, una scimmia, incatenata ad un ramo, coi suoi lazzi faceva ridere a crepapelle un mondo di monelli cenciosi, che si divertivano a farla invelenire tirandole delle pietruzze di nascosto.
Poco discosto dalla tenda, sotto una capanna di frasche, si ammassava incessantemente una colonna di bevitori, e la vernaccia spariva a bicchieri, a litri in quelle gole arse, bionda come l’oro fuso. Qua e là le tende dei venditori di dolci che non accudivano ad accartocciare biscotti e confetture. Ad ogni passo un Gavoese che assordava i passanti col tintinnio dei campanacci per le greggi, imponendo a tutti gli speroni lucidi ed i morsi eterni delle rinomate fabbriche di Gavoi. Dappertutto un vociare continuo, che misto al sole caldissimo, alla polvere, che si sollevava a nugoli dal continuo via vai, stordiva e intontiva i festaioli che pure non si saziavano mai di girare, di vedere, di ammirare, sempre senza posa. Fuori dal recinto il chiasso era addirittura spaventevole. Colà avevano piantato le loro tende gli Isilesi, che con le centinaia di pajuoli che avevano portato per vendere, s’avevano costruito una specie di cittadella. Per attirare il pubblico percuotevano sui pajuoli, tanto che pareva che cento campane suonassero a stormo.
I Milesi, questi nomadi dell’Isola, con le alte ceste piene di muggini arrostiti, incartocciati nelle foglie pallide dell’asfodelo, empivano l’aria con la monotona cantilena: Cixiri cottu, pisci cottu (pesci cotti).
Scendendo giù verso la pianura, a destra ed a sinistra, si innalzavano le capanne dei Milesi venditori di aranci e di vernaccia.
Sotto a quelle capanne eleganti, di stuoie, rutilavano mucchi enormi di bellissime arance, accanto alla immancabile botte della vemaccia, che parea un cannone immane pronto a lanciare quella mitraglia di palle dorate.
Il solleone favoriva i Milesi, perché, sotto alla calura soffocante del meriggio, le capanne venivano prese d’assalto, per godervi un istante l’ombra protettrice delle stuoje, ed i frutti d’oro sparivano a dozzine, continuamente.
Il laborioso Milese non perdeva mai la testa, serviva tutti, trovando per ognuno una buona parola; egli in un canto cucinava il suo frugalissimo desinare, impassibile fra tanta orgia, sempre pronto sempre in possesso delle sue facoltà.
Di sotto a quel momentaneo rifugio si godeva lo spettacolo della fiera in tutta la sua splendidezza.
Sparse per la pianura innumerevoli baracche costruite con frasche: erano le trattorie del popolino! Colà il poverello trovava da saziare la fame per più giorni, con larghe elemosine degli avventori, tutta buona gente venuta per divertirsi e che voleva, in quei giorni, veder un sorriso anche nel volto del mendicante. Greggi intere di agnelli venivano là sotto sacrificate al dio appetito divoratore. Il vino leggero ed esilarante di Sorgono correva a rivi, e faceva germogliare le canzoni improvvisate degli stornelli gentili e le nenie amorose, all’indirizzo delle bellissime fanciulle che a frotte passavano, tenendosi a braccio in dieci e in quindici, per tema di smarrirsi tra la folla.
Da una parte i carri ricoperti, trasformati in sale di ricevimento per il giorno, ed in dormitori per la notte, formavano un insieme pittoresco, a guisa di un vasto attendamento, o di una carovana fermatasi in un’oasi.
Giù, negli ultimi limiti della pianura c’era la fiera del bestiame. Ma quella era la vera battaglia! Chi si poteva avventurare fra quelle migliaia di buoi? Fra quei cavalli bizzarri montati da cavalieri impazziti addirittura? Pure mai, o raramente, una disgrazia che abbia potuto turbare l’allegria della festa.
Questo frastuono non cessò neanche la notte: cambiò forma, ecco tutto. Allora cominciarono i canti degli improvvisatori, le gare poetiche, i balli disordinati degli ubriachi, al suono delle fisarmoniche stonate. Così per tre giorni e per tre notti, senza tregua, senza riposo.
La processione doveva segnalare la chiusura della festa.
Parecchi squadroni di cavalieri dai corsetti di colori smaglianti, come se attendessero il segnale del torneo, aspettavano nervosi ed impazienti il segnale che annunziasse il muoversi della processione.
Dopo tanto, l’aspettato squillo si sprigionò dal campanile, e la processione partì dalla chiesa.
In testa erano i cavalieri, con labari e bandiere, a capo scoperto, tutti ordinati, messi in fila, costringendo i cavalli focosi ad un passo lento e regolare; poi i confratelli col santo; dietro a lui il rettore di Sorgono con una gran cappa di broccato d’oro a rose sanguigne, modulando la voce in toni nasali; appresso al rettore un’infinità di uomini, col capo scoperto, con certe selve di capelli irti e sconvolti, come se tornassero da una zuffa accanita, recitavano in cantilena il rosario. Seguivano centinaia di donne di tutta la Sardegna, coi loro brillanti costumi che spiccavano splendidamente nello sfondo verde smeraldo della collina, dirimpetto alla chiesa.
Il mormorio monotono, il canticchiare ommesso delle preci si diffondevano per l’aria tiepida assieme ai profumi dell’incenso, al canterello delle campane ed allo scoppio di bombe, fucili e di pistolonì, sparati in segno d’allegria al passaggio del santo.
Molti dei fedeli meno ardenti avevano preferito godersi lo stupendo spettacolo della processione, da lontano, e perciò avevano preso d’assalto tutte le punte più eminenti, tutte le alture. Gli alberi erano pieni di spettatori, numerosi come gli stornelli; il campanile, i tetti delle casupole, il muro di cinta, i carri, tutto, tutto era stato invaso dalla gente, pigiata, serrata, aggruppata come le mosche sopra un dolce.
La processione era uscita dal portone d’Oriente detto di Sorgono. e dopo venti minuti rientrava in quello d’Occidente, detto d’Ortueri, appunto perché i due portoni sono rivolti verso quei due paesi fra i quali sorge la chiesa di San Mauro.
La vera lotta fu, allora, per entrare in chiesa e per ricevere l’ultima benedizione. Chi arrivò ad averla, oh! È certo che la pagò ben cara, perché quegli urti, quegli spintoni, quel sentirsi soffocare, quel sentirsi venir meno, fra le strette furiose di quel popolo fanatico, sarebbe stato sufficiente a pagare anche un posticino di paradiso.
I cavalieri fecero ancora tre volte il giro della chiesa; però questa volta con una corsa quasi vertiginosa; poi si sparpagliarono rumorosamente per la pianura.
La festa era ufficialmente finita.
In un momento tutti avevano preparato le bisacce, tutti avevano sellato i cavalli e per parecchie ore non si vide altro che gente a cavallo, partire, partire, dandosi degli addii clamorosi, delle, cordiali strette di mano, dei baci lunghi, augurandosi di rivedersi l’anno venturo. Eravene qualcuno che piangeva per la commozione fino al pianto, ma lo sapeva bene zia Nannedda, la nuorese, che vendeva l’eccellente vino di Oliena a un franco al litro, il motivo di quella commozione!
Le tettoie di frasche cadevano, le capanne di stuoie venivano disfatte e i carri d dormitori si mettevano lentamente in viaggio dondolando come bastimenti che uscissero dal porto a vele spiegate.
Dei clamori della festa non rimaneva che un mormorio sordo, moribondo: qualche nitrito di cavallo, qualche muggito di bue, ed in lontananza il ritmo monotono di qualche canzone senza entusiasmo. Quel grande spazio ove s’erano passati tanti giorni di allegria schietta, e di festa generale, ora s’andava seppellendosi in un abbandono triste. Pareva un paese abbandonato da un popolo di emigranti.
Qua e là qualche mucchio di paglia. E qualche fuoco semispento che mandava al cielo una lunga colonnetta di fumo cenerognolo.
Lontano, in tutte le direzioni, perdentisi nelle penombre crepuscolari, andavano scomparendo i vivaci colori dei superbi costumi, e S. Mauro, col sopraggiungere della notte, s’addormentava di un sonno che doveva durare un altr’anno.
Brano dal libro Santu Maru. Santuario campestre al centro geografico della Sardegna, di Giuseppe Luigi Manca.
Edizioni Graphi.S, Samugheo (OR)
(pp 117 -126)
Ballero Antonio – San Mauro, Vita Sarda, anno I, n. 17, 8 nov. 1891. Pp 5-7